Sarebbe una buona notizia poter dire che
l’inasprirsi delle condizioni di lavoro ha innescato un processo di
nuove lotte e di reazioni operaie nell’anno passato. In realtà i settori
che hanno registrato una più alta combattività sono stati quelli della
logistica e quello dei trasporti, gli uni e gli altri organizzati in
larga misura da sindacati di base.
Dal canto loro le organizzazioni sindacali confederali – Cgil Cisl
Uil - hanno in buona sostanza rinunciato a organizzare una difesa
concreta. La Cgil, in particolare, non ha trovato niente di meglio che
allestire una raccolta di firme per una “Carta universale dei diritti
del lavoro”, colma di ovvie buone intenzioni ma priva di consistenza
concreta. E come potrebbe, ci si chiede, posto che la semplice
enunciazione di ipotetici diritti suona – nell’attuale contesto -
stonata come chi caldeggia una dieta vegetariana al proprietario di una
macelleria. Non sarà una raccolta di firme a facilitare la conquista – o
meglio, la riconquista parziale – di diritti un tempo dati per
acquisiti, e persi senza nemmeno un’adeguata strategia di difesa.
A quanto pare, come difesa la Cgil sembra aver fatto il callo alla
raccolta di firme: la seconda iniziativa ritenuta possibile e di ampio
respiro nell’anno passato, i cui esiti potremo constatare nell’anno in
corso, è l’ennesima richiesta di una serie di referendum, uno per
l’abrogazione del Jobs Act e il ripristino dell’art. 18, uno
sull’abolizione dei voucher e delle leggi che limitano la responsabilità
in solido di appaltatore e appaltante, in caso di violazioni nei
confronti del lavoratore. La Consulta ha approvato solo quello relativo a
voucher e responsabilità in solido. Sempre ammesso che nel frattempo il
Parlamento non trovi il tempo di legiferare in merito per evitare i
referendum con qualche modifica (una proposta di legge per il secondo
quesito è già stata presentata alla Camera), tutti ricordiamo che fine
hanno fatto i precedenti referendum in materia di lavoro.
Chiamare a raccolta tutte le classi sociali per esprimersi su una
questione che riguarda solo i lavoratori dipendenti, e sulla quale solo i
lavoratori hanno da perdere, è già un atteggiamento perdente.
Soprattutto dopo aver fatto digerire ai lavoratori ogni peggioramento
delle proprie condizioni, spacciandolo spesso per opportunità. Chi non
ha la memoria corta ricorderà i referendum interni al sindacato sui vari
provvedimenti adottati dai diversi Governi (dalle pensioni allo stato
sociale), su accordi firmati dalla Cgil, e per l’approvazione dei quali
la Cgil stessa ha mobilitato tutte le sue truppe; e in ragione dei
quali, alla fine dei conti, le condizioni di lavoro sono arrivate a
essere quelle che sono.
SEMPRE PIU’ VOUCHER
Si corre a spegnere un fuoco che divampa con qualche bicchiere
d’acqua…Il Governo si è inventato la tracciabilità, quando l’esplosione
dei voucher è diventata fuori controllo. Da ottobre, il datore di lavoro
deve inviare un sms o una mail almeno un’ora prima dell’inizio della
prestazione pagata con voucher all’Ispettorato nazionale, pena una
sanzione. Chi e come farà i controlli, quanto saranno efficaci, al
momento non è dato sapere. Nell’intero 2016 sono stati venduti 133,8
milioni di voucher, con un incremento del 23,9% sul 2015. Dal 2008,
primo anno di sperimentazione, sono stati 387 milioni, per un valore di
quattro miliardi di euro. Nel mezzo c’è stata la liberalizzazione
introdotta con la legge Fornero nel 2012, e successivamente
l’innalzamento da 5.000 a 7.000 euro l’anno per ogni lavoratore
introdotto dal Governo Renzi.
Appare subito evidente l’incidenza delle vendite 2016,
abbondantemente più di un terzo sul totale. Questi buoni esentasse da 10
euro lordi non prevedono contributi da parte del datore di lavoro, e
una contribuzione di 2 euro e mezzo solo da parte del lavoratore. Il
lavoro sganciato totalmente da qualsiasi tutela, contratto, obbligo da
parte dell’impresa evidentemente è apprezzatissimo: sembrerà strano, ma
le Regioni che ne fanno più uso sono quelle più ricche e produttive...
dopo la Lombardia (20 milioni di voucher venduti nei primi nove mesi del
2016) c’è il Veneto con 18 milioni. Interessante il commento del
segretario Cisl Veneto: “Ma l’agricoltura veneta, settore con il più
alto tasso di utilizzo spesso irregolare dei voucher, attraversa un
periodo positivo che ne giustifica ancora meno il ricorso. Siamo a un
voucherista ogni tre dipendenti” (La Repubblica, 16.12.16).
DISOCCUPAZIONE: NIENTE DI NUOVO
Per quanto tutte le riforme sul lavoro siano state presentate come
volte a favorire nuova occupazione, l’unica occupazione veramente
crescente è quella tra i 50-64enni, per il semplice motivo che sono
costretti a rimanere al lavoro dalle riforme pensionistiche. Per il
resto, al di là delle chiacchiere a scadenza mensile sulle lievi
variazioni nella conta dei disoccupati, degli inattivi, degli occupati a
tempo determinato e di quelli a tempo cosiddetto indeterminato, la
disoccupazione resta costante e stabile intorno al 12% (in crescita
comunque rispetto all’11,6% di dicembre 2015), mentre quella giovanile
non si sposta di molto dall’impressionante percentuale del 40%, a
dicembre 2016 anzi al 40,01% (il livello più alto da giugno 2015). Lievi
e occasionali flessioni fanno immediatamente gridare alla ripresa,
subito smentite dai tonfi dei mesi successivi. D’altronde, se per
l’ISTAT è sufficiente un’ora di lavoro alla settimana per essere
considerati occupati, le variazioni tra un mese e l’altro possono essere
molte, ma la sostanza non cambia.
Quanto agli effetti del Jobs Act sull’incremento delle assunzioni a
tempo indeterminato rispetto a quelli a tempo determinato, è ormai
assodato che la vera differenza l’hanno fatta gli sgravi contributivi
alle aziende. Ridotta la cuccagna, si torna alla norma: le imprese non
sembrano particolarmente attratte dalle assunzioni a tempo
indeterminato, nemmeno con tutte le garanzie di poter licenziare in
qualsiasi momento con poca spesa. Nell’ultimo trimestre 2016 il calo di
questi contratti è stato del 18,7%, e le cessazioni sono state più delle
assunzioni stabili. In ripresa infatti sono i contratti a tempo
determinato: il saldo annuale, compresi gli stagionali, è di 146mila in
più.
La cassa integrazione diminuisce; sono gli effetti della soppressione
di quella in deroga e delle nuove norme sui cosiddetti ammortizzatori
sociali, che ne limitano l’uso.
RETRIBUZIONI: CRESCITA AL MINIMO DAL 1982
Dal 1982 si registrano le serie storiche, e da quell’anno una
crescita così bassa delle retribuzioni non si era mai vista. L’aumento
medio orario nel 2016 è stato dello 0,6%, e il fatto che l’inflazione si
sia mantenuta molto bassa non toglie che la tendenza si sia mantenuta
costantemente in discesa. E’ l’effetto in gran parte del mancato rinnovo
dei contratti di lavoro, e anche dei rinnovi nei quali la controparte
ha avuto la meglio, come quello dei metalmeccanici. Nel 2016 sono stati
firmati 13 contratti di lavoro, ma 49 sono ancora in attesa di rinnovo,
di cui 15 appartenenti alla Pubblica Amministrazione; 3 milioni di
dipendenti che anche nell’anno passato hanno ricevuto soltanto blande
promesse.
In tutto quasi 9 milioni di lavoratori che non hanno atteso mai così
tanto tempo per i rinnovi, sostiene l’ISTAT: l’attesa media, calcolata
sul totale dei dipendenti, è di 27,1 mesi. E date le premesse (vedi
contratto dei metalmeccanici), non si sa quanto sarebbe vantaggioso un
rinnovo, posto che per scarsi aumenti non è escluso che vengano
richieste corpose concessioni. A meno che, naturalmente, non si riesca a
mettere in campo una lotta decisa e organizzata.
In più, anche fra i lavoratori dipendenti pare allargarsi la forbice
tra gli stipendi dei dirigenti e gli altri. I bracci destri delle
imprese hanno una retribuzione oraria tre volte superiore alla media,
cinque volte e mezza se riferita alle professioni non qualificate. Di
contro, per i lavoratori a tempo determinato, oltre al danno della
precarietà, si aggiunge anche la beffa della paga più bassa di oltre il
20%.
IN SETTE ANNI RADDOPPIATE LE FAMIGLIE POVERE
Il lavoro non basta più: tra le famiglie operaie il tasso di
immiserimento è triplicato rispetto al 2005, salendo dal 3,9 all’11,7
per cento (Dati ISTAT). I nuclei familiari più in difficoltà sono
proprio quelli in cui la persona di riferimento è un operaio o è in
cerca di occupazione, soprattutto se i componenti sono giovani e con più
di un figlio, e sono quasi raddoppiati i bambini sotto i sei anni con
gravi privazioni materiali. Il nostro Paese è, dopo la Grecia, quello in
cui è aumentata di più la povertà infantile; è un dato che non
stupisce, visto che una famiglia su dieci in cui la persona di
riferimento è sotto i 34 anni non può permettersi un livello di vita
dignitoso. In un decennio il tasso di povertà è diminuito del 4,1% tra
gli anziani, la maggior parte dei quali può contare su un reddito fisso e
certo come la pensione. Fino al 2011 non c’erano grandi differenze tra
le varie fasce d’età, e i più poveri erano gli ultra sessantacinquenni.
Oggi la recessione, con il corollario della perdita dei posti di lavoro e
la precarizzazione di gran parte di quelli esistenti, ha capovolto la
situazione, e il tasso di povertà è cresciuto di oltre tre volte nei
giovani adulti. Non c’è da stupirsi del tracollo delle nascite: soltanto
nei primi sei mesi del 2016 sono state 14mila in meno, e il decremento
interessa ormai anche le famiglie immigrate.
Secondo Eurispes, quasi la metà delle famiglie non riesce a far
quadrare i conti, con un incremento di circa un punto percentuale
rispetto all’anno precedente. Anche l’impossibilità di far fronte a
spese improvvise di almeno 800 euro è aumentata (+4.7%), raggiungendo
quota 52,8%, come la quota di chi è in arretrato con mutui, prestiti o
bollette (+8,7) che ha raggiunto quota 30,4%.
In compenso, chi se la spassava in passato non ha perso l’abitudine:
il 20% più ricco delle famiglie italiane percepisce il 39,3% dei redditi
totali, il 20% più povero ne percepisce il 6,7%.
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