2016 – Dallo statuto dei lavoratori ai lavoratori con il voucher

Sarebbe una buona notizia poter dire che l’inasprirsi delle condizioni di lavoro ha innescato un processo di nuove lotte e di reazioni operaie nell’anno passato. In realtà i settori che hanno registrato una più alta combattività sono stati quelli della logistica e quello dei trasporti, gli uni e gli altri organizzati in larga misura da sindacati di base.
Dal canto loro le organizzazioni sindacali confederali – Cgil Cisl Uil - hanno in buona sostanza rinunciato a organizzare una difesa concreta. La Cgil, in particolare, non ha trovato niente di meglio che allestire una raccolta di firme per una “Carta universale dei diritti del lavoro”, colma di ovvie buone intenzioni ma priva di consistenza concreta. E come potrebbe, ci si chiede, posto che la semplice enunciazione di ipotetici diritti suona – nell’attuale contesto - stonata come chi caldeggia una dieta vegetariana al proprietario di una macelleria. Non sarà una raccolta di firme a facilitare la conquista – o meglio, la riconquista parziale – di diritti un tempo dati per acquisiti, e persi senza nemmeno un’adeguata strategia di difesa.
A quanto pare, come difesa la Cgil sembra aver fatto il callo alla raccolta di firme: la seconda iniziativa ritenuta possibile e di ampio respiro nell’anno passato, i cui esiti potremo constatare nell’anno in corso, è l’ennesima richiesta di una serie di referendum, uno per l’abrogazione del Jobs Act e il ripristino dell’art. 18, uno sull’abolizione dei voucher e delle leggi che limitano la responsabilità in solido di appaltatore e appaltante, in caso di violazioni nei confronti del lavoratore. La Consulta ha approvato solo quello relativo a voucher e responsabilità in solido. Sempre ammesso che nel frattempo il Parlamento non trovi il tempo di legiferare in merito per evitare i referendum con qualche modifica (una proposta di legge per il secondo quesito è già stata presentata alla Camera), tutti ricordiamo che fine hanno fatto i precedenti referendum in materia di lavoro.
Chiamare a raccolta tutte le classi sociali per esprimersi su una questione che riguarda solo i lavoratori dipendenti, e sulla quale solo i lavoratori hanno da perdere, è già un atteggiamento perdente. Soprattutto dopo aver fatto digerire ai lavoratori ogni peggioramento delle proprie condizioni, spacciandolo spesso per opportunità. Chi non ha la memoria corta ricorderà i referendum interni al sindacato sui vari provvedimenti adottati dai diversi Governi (dalle pensioni allo stato sociale), su accordi firmati dalla Cgil, e per l’approvazione dei quali la Cgil stessa ha mobilitato tutte le sue truppe; e in ragione dei quali, alla fine dei conti, le condizioni di lavoro sono arrivate a essere quelle che sono.
SEMPRE PIU’ VOUCHER
Si corre a spegnere un fuoco che divampa con qualche bicchiere d’acqua…Il Governo si è inventato la tracciabilità, quando l’esplosione dei voucher è diventata fuori controllo. Da ottobre, il datore di lavoro deve inviare un sms o una mail almeno un’ora prima dell’inizio della prestazione pagata con voucher all’Ispettorato nazionale, pena una sanzione. Chi e come farà i controlli, quanto saranno efficaci, al momento non è dato sapere. Nell’intero 2016 sono stati venduti 133,8 milioni di voucher, con un incremento del 23,9% sul 2015. Dal 2008, primo anno di sperimentazione, sono stati 387 milioni, per un valore di quattro miliardi di euro. Nel mezzo c’è stata la liberalizzazione introdotta con la legge Fornero nel 2012, e successivamente l’innalzamento da 5.000 a 7.000 euro l’anno per ogni lavoratore introdotto dal Governo Renzi.
Appare subito evidente l’incidenza delle vendite 2016, abbondantemente più di un terzo sul totale. Questi buoni esentasse da 10 euro lordi non prevedono contributi da parte del datore di lavoro, e una contribuzione di 2 euro e mezzo solo da parte del lavoratore. Il lavoro sganciato totalmente da qualsiasi tutela, contratto, obbligo da parte dell’impresa evidentemente è apprezzatissimo: sembrerà strano, ma le Regioni che ne fanno più uso sono quelle più ricche e produttive... dopo la Lombardia (20 milioni di voucher venduti nei primi nove mesi del 2016) c’è il Veneto con 18 milioni. Interessante il commento del segretario Cisl Veneto: “Ma l’agricoltura veneta, settore con il più alto tasso di utilizzo spesso irregolare dei voucher, attraversa un periodo positivo che ne giustifica ancora meno il ricorso. Siamo a un voucherista ogni tre dipendenti” (La Repubblica, 16.12.16).
DISOCCUPAZIONE: NIENTE DI NUOVO
Per quanto tutte le riforme sul lavoro siano state presentate come volte a favorire nuova occupazione, l’unica occupazione veramente crescente è quella tra i 50-64enni, per il semplice motivo che sono costretti a rimanere al lavoro dalle riforme pensionistiche. Per il resto, al di là delle chiacchiere a scadenza mensile sulle lievi variazioni nella conta dei disoccupati, degli inattivi, degli occupati a tempo determinato e di quelli a tempo cosiddetto indeterminato, la disoccupazione resta costante e stabile intorno al 12% (in crescita comunque rispetto all’11,6% di dicembre 2015), mentre quella giovanile non si sposta di molto dall’impressionante percentuale del 40%, a dicembre 2016 anzi al 40,01% (il livello più alto da giugno 2015). Lievi e occasionali flessioni fanno immediatamente gridare alla ripresa, subito smentite dai tonfi dei mesi successivi. D’altronde, se per l’ISTAT è sufficiente un’ora di lavoro alla settimana per essere considerati occupati, le variazioni tra un mese e l’altro possono essere molte, ma la sostanza non cambia.
Quanto agli effetti del Jobs Act sull’incremento delle assunzioni a tempo indeterminato rispetto a quelli a tempo determinato, è ormai assodato che la vera differenza l’hanno fatta gli sgravi contributivi alle aziende. Ridotta la cuccagna, si torna alla norma: le imprese non sembrano particolarmente attratte dalle assunzioni a tempo indeterminato, nemmeno con tutte le garanzie di poter licenziare in qualsiasi momento con poca spesa. Nell’ultimo trimestre 2016 il calo di questi contratti è stato del 18,7%, e le cessazioni sono state più delle assunzioni stabili. In ripresa infatti sono i contratti a tempo determinato: il saldo annuale, compresi gli stagionali, è di 146mila in più.
La cassa integrazione diminuisce; sono gli effetti della soppressione di quella in deroga e delle nuove norme sui cosiddetti ammortizzatori sociali, che ne limitano l’uso.
RETRIBUZIONI: CRESCITA AL MINIMO DAL 1982
Dal 1982 si registrano le serie storiche, e da quell’anno una crescita così bassa delle retribuzioni non si era mai vista. L’aumento medio orario nel 2016 è stato dello 0,6%, e il fatto che l’inflazione si sia mantenuta molto bassa non toglie che la tendenza si sia mantenuta costantemente in discesa. E’ l’effetto in gran parte del mancato rinnovo dei contratti di lavoro, e anche dei rinnovi nei quali la controparte ha avuto la meglio, come quello dei metalmeccanici. Nel 2016 sono stati firmati 13 contratti di lavoro, ma 49 sono ancora in attesa di rinnovo, di cui 15 appartenenti alla Pubblica Amministrazione; 3 milioni di dipendenti che anche nell’anno passato hanno ricevuto soltanto blande promesse.
In tutto quasi 9 milioni di lavoratori che non hanno atteso mai così tanto tempo per i rinnovi, sostiene l’ISTAT: l’attesa media, calcolata sul totale dei dipendenti, è di 27,1 mesi. E date le premesse (vedi contratto dei metalmeccanici), non si sa quanto sarebbe vantaggioso un rinnovo, posto che per scarsi aumenti non è escluso che vengano richieste corpose concessioni. A meno che, naturalmente, non si riesca a mettere in campo una lotta decisa e organizzata.
In più, anche fra i lavoratori dipendenti pare allargarsi la forbice tra gli stipendi dei dirigenti e gli altri. I bracci destri delle imprese hanno una retribuzione oraria tre volte superiore alla media, cinque volte e mezza se riferita alle professioni non qualificate. Di contro, per i lavoratori a tempo determinato, oltre al danno della precarietà, si aggiunge anche la beffa della paga più bassa di oltre il 20%.
IN SETTE ANNI RADDOPPIATE LE FAMIGLIE POVERE
Il lavoro non basta più: tra le famiglie operaie il tasso di immiserimento è triplicato rispetto al 2005, salendo dal 3,9 all’11,7 per cento (Dati ISTAT). I nuclei familiari più in difficoltà sono proprio quelli in cui la persona di riferimento è un operaio o è in cerca di occupazione, soprattutto se i componenti sono giovani e con più di un figlio, e sono quasi raddoppiati i bambini sotto i sei anni con gravi privazioni materiali. Il nostro Paese è, dopo la Grecia, quello in cui è aumentata di più la povertà infantile; è un dato che non stupisce, visto che una famiglia su dieci in cui la persona di riferimento è sotto i 34 anni non può permettersi un livello di vita dignitoso. In un decennio il tasso di povertà è diminuito del 4,1% tra gli anziani, la maggior parte dei quali può contare su un reddito fisso e certo come la pensione. Fino al 2011 non c’erano grandi differenze tra le varie fasce d’età, e i più poveri erano gli ultra sessantacinquenni. Oggi la recessione, con il corollario della perdita dei posti di lavoro e la precarizzazione di gran parte di quelli esistenti, ha capovolto la situazione, e il tasso di povertà è cresciuto di oltre tre volte nei giovani adulti. Non c’è da stupirsi del tracollo delle nascite: soltanto nei primi sei mesi del 2016 sono state 14mila in meno, e il decremento interessa ormai anche le famiglie immigrate.
Secondo Eurispes, quasi la metà delle famiglie non riesce a far quadrare i conti, con un incremento di circa un punto percentuale rispetto all’anno precedente. Anche l’impossibilità di far fronte a spese improvvise di almeno 800 euro è aumentata (+4.7%), raggiungendo quota 52,8%, come la quota di chi è in arretrato con mutui, prestiti o bollette (+8,7) che ha raggiunto quota 30,4%.
In compenso, chi se la spassava in passato non ha perso l’abitudine: il 20% più ricco delle famiglie italiane percepisce il 39,3% dei redditi totali, il 20% più povero ne percepisce il 6,7%. 

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